Il Caso Spotlight [Recensione]

Il Caso Spotlight [Recensione]

Gli Oscar 2016 non sono stati solo estremamenti bianchi (#oscarssowhite) ma anche estremamente prevedibili. A vincere come miglior film (e miglior sceneggiatura originale) è stata, infatti, una pellicola di denuncia sociale con un’estetica vintage e un cast corale di alto lignaggio.

La statuetta più ambita se l’è portata a casa il Caso Spotlight, il drama biografico sul team investigativo (Spotlight non è il nome del caso come suggerisce la traduzione italiana, ma quello del reparto di giornalismo investigativo in sede al giornale Boston Globe) che ha svelato, tassello dopo tassello, lo scoop, probabilmente, del secolo.

Ma il successo di Spotlight agli Oscar e in seno alla critica non è, fortunatamente, solo legato al moto nostalgico dei vecchiardi dell’Academy per il cinema degli anni ’70. In un certo senso, in un senso tutto da scoprire quì di seguito, Spotlight rappresenta, infatti, la vittoria di un film atipico.

Il lavoro corale dei veterani Josh Singer (sceneggiatore) e Tom McCarthy (regista) è incentrato sullo scandalo fatto di abusi sessuali e pedofilia che ha coinvolto i preti della diocesi di Boston e balzato agli onori delle cronache e su fino alle orecchie (ovattate) delle alte gerarchie della chiesa cattolica nel 2002. Il resto, è un’escalation vorticosa e un po’ disturbante nei meandri oscuri della depravazione clericale. Una storia insomma, che si scrive da sola. Tuttavia, lungi dall’essere un mero pippone anti-clericale, Spotlight dimostra già dalla sua sinossi le sue speciali ambizioni e i suoi limiti.

Innanzitutto, il film, nella persona di Tom Mccarthy, opera una scelta coraggiosa e adotta una scrittura asciutta e priva di fronzoli, che si allontana dagli eccessi stilistici e dal folle estro creativo degli altri candidati illustri di quest’anno come Alejandro González Iñárritu e George Miller; si allontana, poi, ancora più significativamente anche dalla scrittura indulgente e eloquente di scrittori di biopic come Aaron Sorkin.

Di conseguenza, se per il Mad Max: Fury Road di Miller si è parlato opportunamente di visione, per Spotlight si deve parlare di tutt’altro, che in questa sede viene identificata come una missione. Eppure nelle stesse radici televisive del collega Sorkin, lo sceneggiatore Josh Singer affonda le sue orgini. Lo screenwriter di The West Wing, sceglie però in questo caso di rinunciare consapevolmente ai facili piaceri della scrittura romanzata, per focalizzarsi sulla veridicità degli eventi, i quali da soli portano avanti tutto il peso dell’ambiziosa pellicola.

Il secondo motivo che rende Spotlight speciale è, pertanto, che è un film tutto trama; un film in cui l’artificio della sospensione dell’incredulità non viene applicato, ma che al contrario si basa sul presupposto di apparire sempre vero, non solo credibile. Un film così, di questi tempi, va preso tremendamente sul serio. Contemporaneamente, in quest’ottica, il film che prevedilmente ha trionfato agli Oscar appare adesso anche quello meno scontato del panorama oscareccio, non vi sembra?

spotlight

Inoltre, nascendo da un’intento cronachistico che si fonda su una logica strigente e consequenziale, Spotlight si avvicina in maniera evidente ad un altro medium che è quello giornalistico, di cui descrive uno specifico, travagliato capitolo. Muckraking cinema è, quindi, la definizione più vicina a quello che è stato intentato per Spotlight e che lo inquadra meglio. Il termine, mutuato da un certo tipo di giornalismo investigativo che si concentra sul rapporto tra potere e società, gli calza a pennello, in quanto Spotlight dimostra di essere l’estensione mediatica del suo parente su carta stampata e ne ha lo stesso, se non amplificato, carisma e impatto.

Spotlight, è sicuramente un film solido, ma in tanti si sono posti la questione se sia poi così eccezionale. Con un intreccio chiaro e lineare (fino a sfociare nel noioso direbbe qualcuno), una narrazione serrata e sicura di sè (boriosa direbbe lo stesso qualcuno), un cast di tutto rispetto e che lavora all’unisono (in cui non spicca nessuno si potrebbe osservare) si costruisce di certo un buon film. Ma Spotlight non è solo questo: è ben più della mera somma delle sue parti.

Per non farsi ingannare dall’apparente aridità della forma che lo contraddistingue, bisogna guardare, come abbiamo accennato prima, ad un elemento particolare del film chiamato il “Tutti gli uomini del presidente” della sua epoca: la sua missione specifica, portata avanti con gli strumenti che sono più congeniali a questo cinema e meno distrattivi per lo spettatore.

Simmetricamente, è interessante notare che, così come lo stile del film è minimale, anche la scelta del mezzo cinematografico è funzionale a diffonderne il messaggio. Infine, che il messaggio in questo caso sia più importante del suo medium è facile evincerlo dalla reazione, anch’essa collettiva e affiatata, di coloro che hanno lavorato a questo progetto.

Tutti concentrati sempre e solo sul traguardo finale, attori, tecnici e veri giornalisti del Boston Globe erano raccolti davanti alla tv o dentro il Dolby Theatre di Los Angeles sperando nella vittoria perchè il premio rappresentava il riconoscimento della loro missione molto più che un tributo all’arte.

Alla faccia dell’oggettività giornalistica, addirttura Marty Baron, il capo-redattore del Globe dell’epoca ha ammesso poco prima della cerimonia di tifare per una vittoria agli Oscar che avrebbe significato il riecheggiare di una voce diversa e coraggiosa, non solo nel teatro e nell’arte ma globalmente, nel mondo reale.

Tuttavia, nonostante l’aver vinto la statuetta, la vittoria più grande di Spotlight sarebbe che la sua eredità vada oltre il riflettore che gli è stato puntato contro dagli Oscar per ispirare un’altra grande storia prima che un altro grande film.

Mariaclaudia Carella

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