È da poco uscito il romanzo fantasy di Roberto Recchioni, YA – La Battaglia di Campocarne, edito da Mondadori.
Per l’autore romano si tratta della prima esperienza in campo narrativo e col genere dopo una carriera caratterizzata da fumetto, cinema e successi editoriali come Jon Doe, Detective Dante, Orfani, tra i tanti.
In occasione della presentazione del suo libro alla libreria Mooks Mondadori di Napoli abbiamo incontrato l’autore e parlato di YA, di fumetto, di cinema e scrittura.
Recentemente su Facebook hai pubblicato una retrospettiva sui tuoi lavori. In una carriera che passa da Battaglia a Jon Doe, Dylan Dog e Asso dove si colloca questo romanzo. Come mai la scelta di passare ad un genere come il fantasy?
Roberto: In realtà dentro YA c’è tantissimo del mio precedente ci sono tanti luoghi narrativi tipici, tanti piccoli grandi rimandi e poi il tema della narrazione è grossomodo quello che mi sta sempre a cuore, la crescita, il compromesso, le situazioni che ci trasformano in mostri o meno. Quello che è diverso è il genere, il fantasy, ma in realtà con questo genere ho un rapporto di lunga data, ho letto Il Signore degli Anelli che avevo 12 anni, sono un giocatore di Dungeons & Dragons e dei giochi di ruolo da sempre, tantissimi giochi che amo sono fantasy. In questi ultimi due anni, poi, mi sono avvicinato davvero tanto prima con le illustrazioni che ho fatto per il libro The Queen of the Tearling per la Multiplayer Edizioni, poi per la scrittura di YA e per la nuova serie della Sergio Bonelli Editore che si chiamerà 4 Hoods.
La narrativa di genere sembra vivere una nuova stagione visto anche il successo di film quali Il Signore degli Anelli o Lo Hobbit e serie TV come Game of Thrones. I protagonisti di questo romanzo, pur richiamano i tòpos del genere, hanno una caratterizzazione che ci offre differenze importanti. Avevi dei riferimenti che ti hanno guidato nello sviluppo degli stessi o hai preferito tenerti lontano da figure troppo spesso abusate?
Roberto: In realtà per il fantasy è un bel periodo grazie alle opere di autori come Scott Lynch, Joe Abercrombie, George R. R. Martin, che hanno rinnovato tantissimo il genere portando nuova linfa e una nuova durezza nelle ambientazioni fantasy, un nuovo realismo. Sicuramente il lavoro di Lynch e Abercrombie è stato ben presente in quello che ho scritto. Io non mi pongo mai di avvicinarmi o allontanarmi da quelli che sono i riferimenti del genere, io scrivo la storia anche in base alle influenze che ho avuto e questi due autori hanno ne hanno avuto su di me, quindi ho guardato molto al fantasy moderno.
Sebbene tu sia anche illustratore, sei conosciuto soprattutto per il tuo lavoro come scrittore e sceneggiatore. Che difficoltà hai incontrato nel realizzare quest’opera sapendo che non avresti potuto avvalerti del supporto grafico?
Roberto: La narrativa è un mestiere ed era la prima volta che io facevo un mestiere di solo narratore, quindi avevo tutte le titubanze di una prima volta. Non mi sono mai posto, però, il problema del confronto tra l’immagine o la scrittura. Ho scritto tanti raccontini brevi e non faccio fatica ad evocare immagini con le parole quindi non ho avvertito la mancanza del disegno. È chiaro che ti poni il problema dello stile molto di più evidente, però ad esempio, tutta l’attività sul blog o come articolista mi ha abituato all’idee che le persone leggano le mie parole nude, senza disegni.
YA è un romanzo che già dal suo titolo (YA è l’acronimo di Young Adults) mette il chiaro la fetta di pubblico che vuole raggiungere. Com’è per te scrivere per questi giovani adulti?
Roberto: Quando un giapponese parla di un seinen certe volte per noi sono un classico fumetto Bonelli, c’è l’avventura, l’azione, l’orrore. Io sono un pessimo autore, quando qualcuno se la prende con me dicendo che io sono un venditore di patate, un commerciante è verissimo. Una volta Ausonia disse che sono un ‘desertificatore culturale’[Ride]. Il fatto che un autore pensi in funzione di voler raggiungere un pubblico è visto da molti come una cosa negativa. A me piace raggiungere un pubblico, io penso che il più grande delitto, errore che ha fatto la Bonelli in un certo periodo della sua storia editoriale è stata quello di lasciare allo sbando alcune generazioni di lettori che poi sono andati a riversare in altri settori diversi. Che nei manga, chi nei supereroi, chi nei giochi di ruolo. Parlare con i ragazzi è fondamentale, interessante. La mela è appena caduta dall’albero e non ha ancora avuto modo nemmeno di essere mangiata. In termini strettamente commerciali sono loro il futuro. Un lettore giovane ne vale due vecchi, sono quelli che passeranno le loro passioni ad altri lettori e poi ai figli, che hanno una vita più lunga davanti. Se parliamo solo in termini economici è un delirio totale non curare le prossime generazioni. Se poi parliamo in termini artistici, io mi diverto proprio. Tom Sawyer quando ha scritto Le Avventure di Huckleberry Finn per chi l’ha scritto? Per ragazzi. O per restare nell’ambito dei fumetti, a chi scriveva Sergio Bonelli nel realizzare Zagor? Lo scriveva per tredicenni! Ed è meraviglioso. Io credo che scrivere per quella fetta di pubblico sia meraviglioso, la cosa più bella del mondo. Siamo circondati da autori, invece, che scrivono per lettori della loro stessa età. E non credo sia una grande idea. Non cresci, non aggiungi niente a te stesso.
Hai cambiato il tuo stile di scrittura per adattarlo a questa platea di Young Adults?
Roberto: Il genere fantasy è molto popolare tra i lettori etichettati come Young Adults, quindi non è per quello. Io non mi sono posto il problema che il romanzo fosse uno Young Adults in quanto questa è la mia destinazione naturale, è un settore che mi piace, che va da Robert Louis Stevenson alla Joanne Rowling, alcuni dei miei scrittori preferiti rientrano in questo genere. Anche se etichette del genere servono principalmente ai librai per esporre i libri.
YA rappresenta la tua prima esperienza nel campo narrativo, ma nella tua carriera hai avuto modo di scrivere anche per il cinema e per il fumetto. Quali sono le principali differenza che hai incontrato nell’approccio alla scrittura per questi tre media.
Roberto: Io voglio che la mia sceneggiatura sia limpida, affinché il disegnatore capisca esattamente quello che voglio da lui. Quando vedi uno sceneggiatore che te la infiocchetta perché vuole far sentire che ha qualcosa dentro, sta sprecando il tempo suo e quello del disegnatore che la leggerà. La scrittura invisibile è una scrittura di funzione. Se guardi alle migliori sceneggiature cinematografiche sono alcune delle cose più brutte da leggere, ma sono estremamente funzionali. Il cinema ha una regola in più rispetto al fumetto: le indicazioni visive sono quasi del tutto eliminate perché il regista le avverte come un’invasione, lui vuole una sceneggiatura neutra, perché poi spetta a lui metterci del suo. Quindi è una scrittura orribile.
La sceneggiatura per il fumetto veramente efficace è quella che nelle prime quattro righe ti mette tutte le informazioni visive che servono al disegnatore per realizzare la vignetta. Fermo restando che ci sono delle scritture di Tiziano Sclavi che sono davvero un piacere da leggere. Ma in verità è più Tiziano che ha una velleità di scrivere romanzi, è un caso a parte. Nei corsi di scrittura che faccio dico sempre ‘Tutte le informazioni subito’ perché i disegnatori sono pigri e a metà della descrizione ti ha mollato.
La scrittura di un romanzo, infine, è una scrittura di produzione che va in due versi: uno è quello di chi poi la deve trasformare per immagini, l’altro, una volta costruita l’immagine, è quello della struttura, dei dialoghi, del ritmo della storia. Tutto quello che invio all’editor è la stessa cosa che leggerà il lettore. La scrittura in un romanzo è il colore, il tono. Ogni frase deve essere pensata per il tono narrativo. Una cosa che accomuna però i tre diversi approcci è il dover fare sempre delle scelte.
La struttura narrativa ricalca quanto già visto in Orfani, in cui la trama segue diversi piani temporali che convergono nel finale del romanzo. Come nasce questa scelta?
Roberto: È una struttura narrativa che mi permette di giocare molto con tensione e i colpi di scena. Siccome era un romanzo di crescita ho pensato di utilizzare uno schema che tutto sommato rimandasse a quello di Orfani ma solo perché è lo strumento che trovo migliore in questo momento.
Come autore è un dato di fatto essere oggetto tanto di elogi quanto di critiche. Qual è il tuo rapporto con la critica?
Roberto: Mi sono state mosse ogni tipo di critica anche che ho ammazzato il cane di qualcuno [Ride]. La funzione dello strumento critico è fondamentale, la critica permette ad un autore di crescere quindi una buona critica, una ben critica strutturata anche se negativa ti aiuta. Una critica faziosa, o condizionata da elementi che non riguardano la narrazione è del tutto inutile. Ci sono stati dei critici che analizzando il mio lavoro mi hanno dato dei spunti di riflessione forti e altri che sono semplicemente la nullità fatta persona.
Autori come Gipi o Zerocalcare amano spesso utilizzare lo strumento autobiografico per raccontare le proprie storie. Tu, invece, preferisci raccontare storie in cui indossi maschere sempre diverse, passando anche per quella che vesti sui social. Come mai questa scelta?
Roberto: Rispetto a Gipi o Zerocalcare o Leo Ortolani io mi muovo all’interno del genere e quando ti muovi all’interno del genere indossi di per sé una maschera, che può essere il western, horror. In realtà quei personaggi diventano dei veicoli. Dentro Mater Morbi c’è tutta la mia storia personale, in Asso, invece, la cosa è molto più diretta. Io credo di essere me stesso in tutte le cose che ho scritto, come sui social network. Poi lo sai, le persone sono tutto, cambiano tantissimo, non siamo mai uguali a noi stessi. Io credo che sia vero il Roberto di Facebook come quello del blog o come quello delle conferenze. Sono tanti aspetti di una persona quindi, c’è tanto di me in giro. Poi che non lo veicoli necessariamente attraverso una struttura autobiografica forse è un meglio perché non vorrei finire a raccontare storie che parlano solo di me e non universali. Io vorrei che le cose che scrivo possano arrivare a tutti.
Vedremo mai YA diventare un fumetto o un film?
Roberto: L’eventualità che diventi altro c’è, era stata preventivata all’inizio. Ci sono tutta una serie di strutture che sono già avviate affinché diventi qualcos’altro. Può succedere di tutto da qui alla trasformazione in un altro media, però è molto difficile che oggi qualcosa che io realizzi resti in quell’ambito. Orfani è diventato tante cose diverse, Monolith è diventato un film prima ancora di uscire. Quindi presumo che se ne farà qualcosa.
Pensare, quindi, che YA possa diventare un fumetto realizzato da Roberto Recchioni e Gipi non è poi così lontano dalla realtà.
Roberto: Gipi non disegna sui testi degli altri. Sarebbe meraviglioso, fantastico.
Grazie della bella chiacchierata Roberto
Grazie a voi.
Pasquale Gennarelli