Anomalisa: umano, troppo umano [Recensione]

Anomalisa: umano, troppo umano [Recensione]

In questo periodo in cui le sale sono invase da diversi titoli dalla patina hollywoodiana, supereroistica, cinecomica, demenziale e spettacolare, cercate di trovare il tempo (poco, bastano novanta minuti) per andare a vedere il nuovo film di Charlie Kaufman, Anomalisa.

Anomalisa è un film delicato, complesso e intenso e come tale dovrebbe essere trattato: restio ai facili entusiasmi, lontano da ogni definizione, al di là delle categorie di bello e di brutto.

C’è da dire che ogni nuovo progetto di Kaufman si veste dei panni dell’invenzione geniale, del chissà come se le inventa certe cose, del subito cult che si distingue nei discorsi di chi apprezza un certo cinema (quello un po’ indie, che vuol dire tutto e non vuol dire niente). Intendiamoci: Kaufman è quello di Se mi lasci ti cancello (Eternal sunshine of a spotless mind) e di Essere John Malkovich (Being John Malkovich), a buon diritto considerati dei piccoli capolavori di narrazione e inventiva.

Nel caso di Anomalisa la trama procede e, tolto qualche sussulto simbolista, si conclude in un clima di assoluta normalità. Un uomo, tale Michael Stone, oratore motivazionale di successo, prende un aereo per Cincinnati per andare a tenere una conferenza. Annoiato dalla sua stessa vita e alla ricerca di un brivido nel ricordo di una relazione interrotta, cerca nel suo passato una vecchia amante abbandonata.

L’incontro presenta la problematicità banale del protagonista, un normalissimo uomo di mezz’età, incastrato in una vita finta e superficiale, talmente egocentrico ed egoista da cercare sesso senza curarsi del sentimento altrui, della propria famiglia, della presunta amante. Fragile, ma di quella fragilità offensiva e inetta, forte di un riconoscimento professionale basato sulla costruzione di una castello di carte, fatto di empatia e di rispetto costruiti a tavolino per vendere copie di un insulso libro con il proprio ritratto in copertina.

Il protagonista si muove in questo albergo di lusso, tra cene in camera e Martini dry al bar, sigarette e incubi, alla ricerca di un modo per ammazzare la noia e la solitudine nate in un ambiente in cui tutto e tutti lo amano, lo cercano, lo irritano. Tutto il resto del mondo è un ripetersi delle stesse voci, degli stessi volti e delle stesse distanze.

Tutti tranne Lisa.

Lisa non è bella, non è neanche particolarmente brillante. Lisa è diversa.

Lisa ha una sua voce, ha un suo volto. Lisa è l’altro da sé che Michael non è mai stato in grado di distinguere nella massa. Lisa è luminosa, ama Cindy Lauper e, come lei, want to be the one to walk in the sun.

Lisa è la persona di cui siamo innamorati, un’anomalia nell’encefalogramma piatto della nostra esistenza, quel picco verso l’alto che ci ricorda di essere ancora vivi.

Allo stesso modo, Anomalisa si rivela essere uno dei film emotivamente più incisivi degli ultimi tempi, costruito con la solida raffinatezza di quel grande autore che è Charlie Kaufman che questa volta si serve della stop motion per raccontare la sua storia più credibile e umana.

La domanda tuttavia sorge spontanea: Anomalisa sarebbe stato tanto speciale se fosse stato girato come un film normale?

Se fosse stato interpretato da attori veri, il film probabilmente avrebbe mantenuto la stessa carica emotiva, ma avrebbe perso l’invenzione alla base del prodotto, l’invenzione che l’ha promosso da un film ben riuscito di indagine intimistica a un piccolo capolavoro del racconto dell’essere umano.

Kaufman sceglie i pupazzi per veicolare relazioni di assoluta intensità, così come già aveva accennato con gli Abelardo ed Eloisa di Essere John Malkovich. La microespressività, la meccanicità dei movimenti, l’espediente grazie al quale tutti i personaggi, eccetto i due protagonisti, hanno lo stesso volto e la stessa voce (quella di Tom Nooan, nella versione originale) o della perdita del volto stesso nel momento in cui si rischia di perdersi nei labirinti della propria psiche: sono tutte soluzioni che giustificano solo in parte la scelta della tecnica di animazione.

Essere John Malkovich
Essere John Malkovich

I protagonisti di questo film sono pupazzi perché tutta la storia dell’arte ci insegna che non sono necessarie la carne e le ossa per raccontare una storia di esseri umani. Kaufman ci dimostra che la frustrazione dell’esistenza e dei sentimenti, l’abbandono, la perdita e il dolore sono sentimenti talmente devastanti e riconoscibili, da poter essere essi stessi protagonisti di un film.

D’altra parte qui emerge la scintilla di genio che caratterizza ogni film di questo autore, quel non so che in grado di rendere la visione di un film di Kaufman un momento davvero speciale: dopo qualche minuto non si fa alcun caso al fatto che i personaggi che si muovono sullo schermo non sono veri.

Il rapporto di empatia che si crea tra lo spettatore e Michael o tra lo spettatore e Lisa è un caso davvero raro nel cinema e nell’arte in generale: ci si sente sempre più vicini, sempre più chiamati in causa, si soffre e si spera, un po’ come se quei pupazzi li stessimo animando noi stessi per raccontare la nostra storia, per comunicare all’altro dove siamo stati toccati e dove ci hanno feriti.

La colonna sonora, monotona e quotidiana, estraniante nel suo incedere di rumori e di toni di voce, dimessi e disperati non fa che aumentare questo senso di sofferenza condivisa, insieme alla fotografia: luci di interni, claustrofobia, bui, pioggia, la nostra vita in cattività, i nostri sentimenti al microscopio, la scientificità del fallimento che vira grazie ad un’anomali(s)a. Forse.

Anomalisa uscirà domani, 25 febbraio, nelle sale italiane.

Francesca Torre

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